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"365 giorni e 6 ore". Il viaggio di Francesco De Falco: "Nella vita si cade e si fallisce, ma l'importante è rialzarsi e rinascere". Sull'Avellino, l'Irpinia, l'appartenenza...

di Marco Costanza

Alcune settimane fa è stato pubblicato il libro "365 giorni e 6 ore, un viaggio intorno e dentro Carlo Nice". Libro pubblicato dal prof. Francesco De Falco, docente di materie scientifiche a Milano, un ragazzo irpino, avellinese, un lupo, costretto come tanti figli di questa terra a trovare fortune altrove. Un libro che parla di sentimento, di uno in particolare, la rinascita. Non arrendersi mai davanti alle difficoltà della vita e non abbattersi, perchè l'importante non è cadere, ma riuscire a rialzarsi e ripartire più forti di prima.

Abbiamo intervistato Francesco, in una location particolare, allo stadio Partenio-Lombardi di Avellino, un punto cruciale di questo romanzo, l'US Avellino che è uno dei temi trattati, un simbolo di appartenenza di questa terra, un simbolo nel quale la gente irpina si rispecchia in toto, quel lupo che è simbolo di lotta, di fierezza, un animale che sa cosa vuol dire anche fallire, ma mai arrendersi. Così come nella vita di Carlo Nice, il protagonista immaginario del romanzo, che racconta, in un diario di 365 giorni e 6 ore (che dà il titolo al romanzo) le sue esperienze, anche i momenti difficili, soprattutto quelli, dai quali venirne fuori come una Fenice, più forti di prima.

-Ciao Francesco ci parli di cosa parla questo libro?

"E' un po' difficile da spiegare, parla di una storia di un ragazzo, di un giovane avellinese, costretto a lasciare la sua terra, partito prima per l'Università a Napoli e poi per lavoro per Milano. E perciò il titolo di questo diario, 365 giorni e 6 ore, ovvero l'arco di un anno solare, parla di un viaggio, che non è solo fisico, ma anche un viaggio interiore, che ognuno di noi fa, nell'arco della vita, ma soprattutto nell'età della giovinezza, che va dalla fine delle scuole superiori, all'inizio della carriera universitaria. Un viaggio che tanti ragazzi irpini, avellinesi, come me, che hanno dovuto lasciare la loro terra e trovare lavoro lontano. Insomma è un racconto, un diario sul quale riflettere".

- Ci puoi dire le differenze tra Francesco e il protagonista del libro, Carlo Nice?

"Diciamo che io ho fatto di tutto per separare i due personaggi. Quello che viene scritto nel libro è Carlo Nice, un ragazzo sì di Avellino ma l'ho distaccato da me. C'è un sapore autobiografico, alcune cose sono la mia vita. Tipo la famiglia, gli amici, ma ho fatto di tutto per staccare il protagonista da me stesso. Però indubbiamente Carlo Nice è una parte di me, diciamo che è un po' quel falso io che ognuno di noi si costruisce, quella maschera che ci difende e ci protegge dagli altri, dal mondo esteriore"

-Francesco, stiamo presentando il libro davanti allo stadio Partenio-Lombardi di Avellino, una location non a caso. Siamo davanti a due gigantografie, una di Adriano Lombardi, l’altra della Curva Sud. Nel libro hai più volte parlato di appartenenza, dei colori di questa terra, possiamo dire che il Partenio, l’US Avellino, sono tra i segni di appartenenza di questa terra”

“Sì è vero, qui, su questi gradoni, ho vissuto tra i momenti più felici della mia giovinezza. Tanti ricordi stupendi, dal gol del Drago Molino contro il Pescara, la finale playoff contro il Napoli, il gol di Rivaldo con il Foggia, la promozione in B, la partita contro il Pisa, il gol di Thiam all’ultimo con il Benevento, la doppietta di Kutuzov contro la Salernitana, davvero tante emozioni da raccontare. Me le porterò sempre dietro, nella memoria e ogni volta che vedo questo stadio è una grande emozione”.

-Per tornare al concetto di appartenenza, nel libro hai proprio parlato di appartenenza, di tanti giovani irpini che vanno via come te, che sentono legati a questa terra anche grazie alla squadra di calcio. Le generazioni passate, si sono identificate con questa terra anche grazie alla tragedia del terremoto del 1980, che è stato un simbolo di distruzione, ma anche di rinascita, e in quegli anni, l’US Avellino ha simboleggiato proprio quel senso di speranza, di rivalsa, in questo momento, l’US Avellino, cosa rappresenta per te?

“L’analogia terremoto-emigrazione è un tema che mi commuove, davvero bello. Mi piace sottolinearla, me la sento. Io credo che l’US Avellino per me, da ragazzo, se prima era solo una squadra da tifare, ora è più di una squadra di calcio. Perché per me che sono a Milano e vedere questi colori da lontano, è ancora più complicato ma un legame più forte, perché mi sa di radici di appartenenza alla terra di origine. Quindi per me vale tanto l’Avellino, vale più ora che sono lontano che prima. Ora per me Avellino è famiglia, amici, tutti gli affetti lontani che ho”.

- Parole che magari sono condivise da tanti ragazzi che come te sono partiti. Francesco, nel libro parli di una data in particolare per parlare dell’Avellino

“Sì, io nel libro ho scritto anche della storia dell’Avellino, e non è casuale una data. Il libro è diviso in giorni, e quando parlo dell’Avellino calcio parlo del 20 luglio 2018. Una data molto significativa, l’ultimo fallimento dell’Avellino, la non iscrizione in Serie B. Quel giorno mi è crollato il mondo addosso, è vero che era jl secondo fallimento, ma il primo, con i Pugliese, un po’ ce lo aspettavamo, erano alcuni anni che si parlava di difficoltà economiche e così via. L’ultimo, del 2018, è stato un fulmine a ciel sereno, una batosta, venivamo da anni ottimali, campionati importanti, qualche anno prima addirittura avevamo sfiorato la Serie A, poi c’è stata la traversa a Bologna di Castaldo. Quindi non me l’aspettavo, e ho deciso proprio di partire da quel giorno per un motivo. Io in questo libro parlo proprio di fallimenti, delle difficoltà che ci sono nella vita. Perché la vita lo passiamo non è tutta rose e fiori. E ho deciso di parlare dell’Avellino, partendo proprio da quel giorno, perché la tematica di questo libro è che dal fallimento si deve risalire, si deve rinascere, bisogna rialzarsi. Il fallimento è anche una opportunità, un modo per crescere, come persone, come città. Noi vediamo il fallimento come la fine di tutto, ma invece bisogna essere un po’ come la Fenice, il leggendario uccello che rinasce dalle sue ceneri ancora più forte. E l’Avellino così ha fatto e lo prendo come esempio, perché è rinato da quel fallimento ancora più forte, il credo tanto in questa società e solo per sfortuna non siamo ancora risaliti in B. Ma si vede che stiamo risalendo più forti che mai. Spero e ne sono convinto di questo, che presto torneremo dove meritiamo. Che poi, leggendo alle spalle, “Alle gioie e ai dolori, all’amore per questi colori” è una frase bellissima, perché le gioie ok, le ricordiamo tutti, ma i dolori, i fallimenti, sono quelli che ti segnano e ti fortificano”.

-Francesco, in conclusione, perché inviteresti a leggere 365 giorni e 6 ore?

“Io ho iniziato a scrivere questo libro che erano fogli volanti, parole buttate lì a caso. Si parla di una storia, quando finisci le scuole superiori e ti senti perso, i dubbi, i fallimenti in amore, fallimento anche nella vita professionale, nell’università. Io ho cominciato, lasciando la facoltà di ingegneria perché non riuscivo a superare degli ostacoli e poi ci fu un incidente stradale, dove per la prima volta, ho avuto la percezione e la consapevolezza della morte. Quello è stato un po’ il mio punto più basso e infatti questo diario, di 365 giorni e 6 ore, non a caso inizia non dal primo gennaio, ma dalla data successiva all’incidente, il 22 gennaio ebbi l’incidente, il 23 inizia il mio racconto. Proprio perché è dai fallimenti che si inizia e per questo, consiglio di leggere questo romanzo proprio per dire, tu non sei solo, non siete soli, ce l’ho fatta anche io e se ce l’ho fatta io, sono sicuro, che ce la potete fare anche voi”.

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