Senso di identità e fedeltà alle origini. Insomma, un amore infinito, come suggerisce il titolo del suo bel lavoro. Anzi, il primo, vero amore. Quello che nasceva in una gelida domenica di ottobre, ad appena sei anni, tra una litigata con la mamma ed un’occhiata di intesa col nonno tifoso prima di trasferirsi al Piazza d’Armi per un’anonima gara con l’Acquapozzillo, poi finita 0-0 (risultato che scatenerà ancor di più le perplessità di una madre poco intenditrice di calcio che potrà rinfacciare al figlio la visione di uno spettacolo ritenuto ingenerosamente inutile). Per Felice D’Aliasi fu quella la prima volta. La lettura di questo libro potrebbe fermarsi qui, col racconto commovente e privato di uno spaccato familiare in cui ogni tifoso davvero innamorato non può non identificarsi, al di là della propria fede di appartenenza. Sono “le origini di una passione”, come le definisce. Ma varrebbe la pena soffermarsi anche su un altro aneddoto: siamo nel settembre del 1980, Felice è quasi maggiorenne. L’Avellino di Vinicio esordisce a Brescia e con due amici si decide di pianificare una trasferta alquanto avventurosa. Ventiquattro ore di viaggio in autostop, arrivo allo stadio e vittoria per 2-1. Nel sonno. Sì, perché di quella gara i tre fedelissimi biancoverdi non vedono un minuto, vinti da una stanchezza traditrice. Quindi il rientro in treno. Brescia-Milano-Napoli, senza una lira in tasca e con tanta paura del blitz del controllore di turno. Pericolo scampato a Bologna, dove proprio un addetto delle ferrovie sceglie la linea della tolleranza, non infierendo su tanta passione. Ecco, il volume di D’Aliasi (che si è avvalso della “sapienza tecnica” del collega Rino Scioscia, che ne ha curato minuziosamente la narrazione) è composto anche da questi racconti in grado di unire emotivamente chiunque abbia a cuore una maglia, un simbolo. In fin dei conti, chi di noi non ha superato ostacoli, in modo più o meno lecito, per rigenerare a getto continuo l’acqua i cui nuota la propria fede? La squadra del cuore come entità empirica ma nello stesso tempo spirituale, in grado di condizionarti una vita e di modellarti. E il profumo di un calcio che non c’è più, così genuino da ipnotizzare i meno giovani nel ricordo di un’infanzia ormai passata. C’è tutto questo in quasi 150 pagine di “Un amore infinito”. E si coglie lo sforzo, certamente riuscito (anche grazie alla riconosciuta abilità professionale del collega Rino Scioscia) di voler fondere cronistoria e romanticismo, facendole flirtare con rara abilità. Infatti il lavoro di D’Aliasi spazia attraverso tutte le vicende tecniche e societarie dell’Avellino, dagli anni della C (1969-1973) fino alle gesta dei ragazzi di Bucaro, passando per due eventi che hanno marchiato a fuoco la sua avventura di tifoso. Intanto, “il giorno più bello dopo la nascita delle figliole”: la trionfale domenica di Genova dell’11 giugno 1978, quando il gol di Piga alla Sampdoria regala la A alla squadra di Carosi. Quindi, quello “più triste”, il 10 luglio 2009, allorché il sindaco cittadino annuncia la mancata iscrizione della vecchia US al campionato di B. Un filo rosso in cui vengono messi a nudo, in maniera sempre sobria, i profili di tanti interpreti che hanno scritto la storia biancoverde. C’è tempo anche per un pensiero su quel maledetto 23 novembre del 1980. Quando una domenica di festa si trasforma in incubo. Prima la sonante vittoria sull’Ascoli (4-2), poi la passeggiata con alcuni amici nel centro cittadino, infine il terremoto ed i lampioni del Corso che “ondeggiano come ombrelloni sulla spiaggia in una giornata di grande vento”. La sorte poi avrebbe restituito parzialmente la propria indulgenza al popolo irpino, favorendo l’ennesima salvezza nonostante i cinque punti di penalizzazione incassati ai nastri di partenza. Un inciso, in tema di amarcord: il libro è impreziosito anche da alcuni stralci di interviste ai vecchi protagonisti delle vicende biancoverdi fatte dal caro collega Michele Pisani, anch'egli notoriamente innamorato dei Lupi. Non mancano, nè poteva essere altrimenti, le narrazioni sulle tante sfide col Napoli. Perché quello con gli azzurri era un derby che travalicava per prestigio i confini di una mera contesa di provincia. Era il derby che tutto sommato suscitava le curiosità di tutta la famiglia pallonara italica. E sarebbe così ancora oggi se solo al magnifico tifo biancoverde si staccasse la spina di una sofferenza che dura da troppi anni. E gli si restituisse finalmente dignità ed ambizioni rinnovate. Del resto gli incroci tra Napoli ed Avellino hanno in un certo senso inaugurato la mia storia personale di appassionato di calcio, quando anche sul versante partenopeo i Lupi erano un avversario rispettato e temuto. Sarebbe impossibile per me non tornare a quel 4 ottobre 1987 in cui gli azzurri Campioni d’Italia violarono il Partenio a pochi minuti dal termine con una prodezza di Carnevale. Per il sottoscritto, appena adolescente, si trattò del battesimo nel glorioso impianto irpino. E battere l’Avellino a casa sua scatenava senza dubbi una soddisfazione paragonabile soltanto alla vittoria su una big (Juventus, rivale di sempre, a parte). Chi ha buona memoria non potrà mai negarlo. Molto è dedicato alla triste vicenda di Sergio Ercolano, il tifoso azzurro morto dopo essere precipitato dalla copertura di plexiglass del corridoio di una palestra. Ma tanto è riservato proprio alla doppia sfida del giugno del 2005, nei play-off di C. Per Felice, che pur ne aveva viste di cotte e di crude, si tratta della “più bella ed emozionante pagina dell’album biancoverde dell’ultimo decennio”. Il 19 giugno l’Avellino mette sotto gli azzurri e torna in B. E proprio quel derby resterà l’ultimo, quasi a significare che sui partenopei, al di là dei percorsi successivi che si sono fatti e si faranno (ci auguriamo sempre gloriosamente), aleggerà comunque uno spettro biancoverde. Fin quando esisterà questo magnifico sogno collettivo chiamato calcio. Questa la cronaca di una vita vissuta sempre in prima linea per il suo Avellino. Ma D’Aliasi, per chi ne conosce tratti umani e virtù professionali, è, sì, uomo di parte, ma mai “partigiano”. E, soprattutto, molte volte severo e mai prono in analisi e giudizi. A maggior ragione quando si tratta di parlare del suo “amore infinito”. E, per questa ragione, rispettato da tifosi ed addetti ai lavori per la sua credibilità e per un’innegabile umiltà. Rispettato e stimato anche da chi, ed è un dato di fatto, è stato persino oggetto di critiche dure e mai diplomatiche, seppur infuse sempre di classe e stile. Perché, come affermava Montanelli, “la deontologia professionale si racchiude in una semplice e difficile parola: onestà”. E’ grazie a ciò che le due anime del tifoso e dell’opinionista sono riuscite a convivere armoniosamente. Il tutto arricchito dal rifiuto della banalità e del luogo comune. E anche delle sirene dell’opportunismo, quando per tanti la via del giornalismo impiegatizio si lascia preferire alle altre. Felice ha da sempre scelto la seconda via, quella dell’opinionista servo solo e soltanto della propria onestà intellettuale. E la sua carriera televisiva gli ha dato ragione. Fortunato chi, come me, ha potuto conoscerlo da vicino ed avere il privilegio di interloquire con lui in qualche salotto televisivo, apprendendo tanti segreti del mestiere. Succedeva quando lo chiamavo “Maestro”. Ora Felice è anche qualcosa in più, un amico innanzitutto. E poi un “addetto ai lavori” sempre disponibile, col quale il confronto è quotidiano. Ed ora buona lettura. Brividi ed emozioni sono assicurati, per chi li saprà cogliere.
Stefano Sica
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